[gallery columns="7" ids="247218,247219,247220,247221,247222,247223,247224,247225"] Torna Lorenzo Mariani – già direttore artistico alcune stagioni fa – al Massimo e lo fa con una delle sue regie minimal, per questi Pagliacci che chiudono la fase invernale della stagione 2019 della Fondazione e proiettano in quelli che saranno gli appuntamenti estivi, a cominciare da quelli alla GAM, la Galleria d’ Arte Moderna. Una regia – andata in scena nel 2007 sempre al Massimo - perfetta nella sua linearità, che risponde a quanto il libretto di Leoncavallo dice e non dice: la scalinata bianco/grigia che domina la parte destra del palco infatti può andar bene sia per una piazza – come la compagnia di giro di Canio prevedrebbe – sia come gradinata di un circo o di un pala tenda, cosi come anche i colorati attrezzi posti al centro (una palla variopinta, l’altalena, il cubo). Ma la scalinata - disegnata insieme ai costumi da Maurizio Balò ed evidenziata dalle luci di Roberto Venturi - serve anche a separare due mondi: quello passionale, colorato, vario degli artisti; quello grigio/bianco/nero degli abitanti della cittadina/villaggio, quasi asettici spettatori delle vicende umane che si svolgono sul palco/vita, così come asettica vorrebbe il Verismo l’occhio dell’autore/compositore nel raccontare il Vero. Ma quale Vero? Quello degli artisti? O quello del pubblico?
Il Prologo d’apertura dell’opera di Leoncavallo dovrebbe spiegarlo: quasi a manifesto dell’ideologia Verista. “Le lagrime che noi versiamo son false”….- canta il Prologo, non a caso personificato - “No, No… L’autore ha cercato invece pingervi uno squarcio di vita…”… - e continua – “Dunque, vedrete amar come s’amano gli altri”… “Poiché siam uomini di carne ed ossa”… “e al par di voi spiriamo l’aere”. Il teatro è quindi vita, la vita è teatro – come Pirandello avrebbe affermato più tardi – ossia il teatro nel teatro. Massima questa cui Mariani aderisce perfettamente con la sua regia, creando i due mondi e dividendoli nettamente se non in piccole incursioni con ballerini – nelle coreografie di Luciano Cannito -, personaggi e coro che interagiscono tra loro animando la scena. La storia d’amore, di passione e di coltello, ben nota a tutti, si dipana quindi sotto l’occhio glaciale e disattento di un paese che non riesce a cogliere, se non alla fine, il dramma umano e interiore che si cela dietro la maschera di Pagliaccio e dietro i vezzi di Colombina, né la malvagità di serpente dietro quella di Tonio.
Alla guida musicale di questa ripresa di Pagliacci, insolitamente rappresentata senza l’abituale compagna – Cavalleria Rusticana, andata in scena peraltro lo scorso anno insieme ad un inedito film muto musicato da Mascagni stesso – Daniel Oren il quale, la sera della prima, avvenuta proprio nel giorno della morte di Franco Zeffirelli, ha voluto rendere omaggio al grande regista raccontando, ad inizio dello spettacolo, del suo rapporto con il Maestro, e di quanto importante per la sua crescita professionale Zeffirelli sia stato. Un Daniel Oren che ha portato l’orchestra del teatro Massimo al parossismo passionale, vivendo, soffrendo, e cantando ogni singola nota e nouances della partitura, a dispetto anche delle condizioni fisiche. Condizioni che lo hanno costretto ad annunciare il forfait per le recite del 19 e del 23, che verranno dirette da Alessandro D’Agostini già previsto sul podio per la recita del 21. Passione nella direzione trasmessa naturalmente al cast, nel quale torreggiava il baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat – già ascoltato nel Rigoletto firmato Turturro - nel ruolo di Tonio, ma interprete soprattutto di un accorato e struggente Prologo.
Enkhbat ha confermato le apprezzate doti canore e di recitazione tratteggiando un Tonio sfuggente, violento, ironico, ambiguo, di contro al quasi innocente Silvio, nonostante il ruolo di amante di Nedda, di Elia Fabbian,voce poco sensuale e più tenorile che baritonale. Pur essendo fedele alla partitura Fabbian non riesce ad essere particolarmente incisivo in uno dei più celebri e intensi duetti d’amore del repertorio operistico. Nedda, al secolo Valeria Sepe, ha il suo daffare, quasi sgolandosi, a profferire il suo amore e il suo desiderio: l’atto d’amore che si apprestano a consumare è quasi un bene, per Silvio/Fabbian, che venga interrotto dall’arrivo di Tonio e Canio. Valeria Sepe, già ascoltata come Mimì nella pucciniana Bohème, conferma le sue doti di attrice, in particolare nello scontro con Tonio e nella recita finale, resta anche la liricità della sua voce che si nota particolarmente nello svettante registro acuto, cui forse dovrebbe essere associata una maggiore rotondità nei centri e nel registro basso, tale da rendere meno marcati i vari passaggi.
Caratteristiche queste che sembrano adattarsi alla voce del tenore sudamericano Martin Muehle, anche lui già ascoltato come Maurizio in Adriana Lecouvreur, ruolo, quello di Maurizio, molto più consono, nel suo eroico lirismo, alle sue corde rispetto a Pagliaccio/Canio, più drammatico, a volte aspro, nonostante l’accorata “Vesti la giubba”, in cui ha sicuramente profuso tutta la sua maestria interpretativa e vocale, non potendo non rendere onore ad una delle più conosciute Arie operistiche. Completavano il cast Matteo Mezzaro, nel ruolo di Beppe/Arlecchino; Francesco Polizzi e Paolo Cutolo, due contadini. Ottimi il Coro, diretto da Piero Monti e il Coro di Voci bianche, diretto da Salvatore Punturo. Pagliacci sarà ancora in replica il 21 e il 23.
Poi il via alla stagione estiva.