E’ un governo in evidente difficoltà quello che reagisce alle ultime pesanti defezioni di grandi aziende dal Regno Unito. Il segretario di Stato al Commercio Liam Fox ha affermato che da quando è stata votata la Brexit, nel 2016 il Paese ha richiamato più investimenti dall’estero di Germania e Francia messe insieme. “Quindi chiaramente sia un paese attraente per le aziende e per gli investimenti diretti”, ha rivendicato a margine del Forum di Davos.
Il problema è che oltre allo stallo negoziale con l’Unione europea, dovuto alla bocciatura parlamentare dell’accordo che era stato faticosamente raggiunto dal governo May, Londra ha anche appena ricevuto un pesante uno-due mediatico. In particolare ha destato scalpore l’annuncio di Dyson, fiore all’occhiello dell’industria britannica degli elettrodomestici, di delocalizzare il quartier generale a Singapore. La società ha motivato la decisione con la crescente importanza del mercato asiatico. Ma questo tentativo di slegarla dalla Brexit è apparso poco convincente.
Ed soprattutto è stridente il fatto che il fondatore del gruppo, il visionario James Dyson – conosciuto per gli aspirapolvere senza sacchetto, i ventilatori senza pale e altri sistemi innovativi – sia stato uno dei più fervidi sostenitori della Brexit. Oggi poi la seconda bordata. Sony ha comunicato che sposterà la sua sede europea dalla Gran Bretagna all’Olanda per evitare problemi doganali. Userà una società registrata lo scorso anno. Questo renderà l’azienda “una compagnia basata nell’Unione europea” in modo da mantenere i vantaggi del mercato unico europeo. Sony non traslocherà personale e operazioni dall’attuale filiale britannica, ma l’effetto negativo resta. Lo scorso anno Panasonic aveva già fatto altrettanto e molti giganti nippon sono pronti a loro volta: Mufg, Nomura Holdings, Daiwa Securities, Sumitomo Mitsui Financial Group.
E alla rinnovata volontà negoziale di Fox, per cercare una qualche soluzione condivisa con l’Ue, fa da contraltare l’ultimo monito del capo negoziatore europeo, Michel Barnier, che ha chiarito che Londra dovrà farsi carico del conto del divorzio dall’Unione anche nel caso di mancato accordo. A pesare sono soprattutto gli impegni presi nel quadro del bilancio Ue pluriennale in corso (2014-2020). Il governo britannico ha parlato di un importo compreso tra 40 e 45 miliardi di euro, cifre non confermate da fronte Ue. Barnier ha ricordato che “questi impegni sono di natura legale dal punto di vista del diritto internazionale”. Poi ha aggiunto: “Non riesco a immaginare che gli inglesi non rispettino i loro impegni internazionali”.