“In sostanza – ha detto Amato -, la parte adriatica e la parte tirrenica si allontanano lentamente, a causa di rotazione di blocchi geologici, con una velocità di 3, 4, 5 millimetri per anno, che sembra una cosa piccola ma in realtà, se ragioniamo in tempi geologici, dopo cento o duecento anni i millimetri son diventati metri. Questo significa che c’è abbastanza energia, lungo le faglie che abbiamo in Appennino, per farle muovere. Le faglie resistono fino a che possono e poi devono sbloccarsi, scattano e provocano un terremoto. In questo caso è avvenuto un terremoto di magnitudo 6 in una faglia lunga circa 20, 25 Km, con uno spostamento che sarà di qualche decimetro da una parte rispetto all’altra”. Il terremoto di questa mattina si è dunque verificato in una “zona sismica ben nota – ha aggiunto Massimo Cocco -, che è al più alto livello di pericolosità sismica. Nella classificazione sismica è infatti la 1, la più alta”, quella in cui “tutti gli edifici nuovi devono essere costruiti con criteri antisismici. Il problema – ha sottolineato Cocco – è che in quelle zone di edifici nuovi ce ne sono ben pochi e addirittura il 50% delle scuole è stato costruito prima del 1980, quindi senza alcun criterio antisismico”. Per questo, ha concluso, “l’unico modo per evitare i danni è la prevenzione”. “Rispetto alle grandi faglie dei terremoti di subduzione, come quelli che l Pacifico, dove ci sono terremoti di magnitudo 9 o addirittura superiori, e ci sono faglie lunghe centinaia o più di mille chilometri”, quelle che caratterizzano l’Appennino “sono microfaglie”, prosegue Amato. “Ma alla nostra scala e soprattutto con il nostro tessuto edilizio, che purtroppo è molto vulnerabile, queste faglie diventano delle faglie importanti. Non dovrebbe essere così, perché da questo tipo di terremoti ci si può difendere. Dovremmo approfittare almeno di questa circostanza per mettere in sicurezza il territorio”.