Cosa c’è in Libia, per i migranti che vogliono arrivare sulle coste italiane? Torture, violenze, morte. Un inferno che questa volta è finito nelle carte dei magistrati di Agrigento e poi di Palermo, che lo hanno documentato grazie al lavoro degli investigatori di Agrigento e Messina, e hanno fermato tre carcerieri, ‘torturatori’ di un centro di detenzione migranti in Libia a Zawiya. Una ex base militare, vicina al mare, dove dietro ad un grande cancello blu e i muri alti in pietra, vengono sequestrati, torturati, uccisi centinaia di migranti in attesa di partire per l’Europa. Sono stati i migranti, le vittime, che hanno avuto il coraggio di raccontare, dettagli nitidi e descrizioni concordanti, che hanno riconosciuto tre dei loro carcerieri in foto. Migranti che erano a bordo dell’imbarcazione a vela Alex, dell’ong ‘Mediterranea Saving Humans’, soccorsi nella Sar Libica, poi forzando il blocco dei porti chiusi, li aveva fatti sbarcare a Lampedusa a luglio 2019 . I reati contestati sono associazione a delinquere, tratta di esseri umani, sequestro di persona e tortura. Le indagini inizialmente avviate dalla Procura della Repubblica di Agrigento sono state poi trasmesse alla Dda di Palermo. Un’indagine, che spiegano gli inquirenti, sarà oggetto di approfondimenti, data la complessità e la gravità dei fatti emersi.
I tre fermati erano nell’Hot Spot di Messina: Mohamed Conde’ (detto ‘Suarez’), nato in Guinea 22 anni, Hameda Ahmed egiziano, 24 anni, Mahmoud Ashuia, egiziano 26 anni. Descritti cone ‘spregiudicati e violenti’; soprattuto Mahmoud che ‘era solito torturare e picchiare noi migranti, con cavi elettrici, tubi di gomma, a pugni e a calci; era solito picchiare continuamente, anche per ore, il migrante di turno, il quale, anche il giorno successivo veniva nuovamente picchiato; di notte era solito portare il fucile mitragliatore’. Ma il peggiore di tutti il più spietato era il boss della prigione un libico, chiamato Ossama, picchiava, torturava chiunque, utilizzando anche una frusta. Ha ucciso tanti così. E ha stuprato donne. Un’associazione a delinquere, dove i tre fermati, sono solo alcuni dei numerosi carcerieri da identificare di diversa nazionalità, che gestiva il centro di prigionia d Zawiya, dove ‘centinaia di migranti, che tentavano di imbarcarsi per raggiungere le coste italiane, venivano privati della libertà personale e sottoposti a sistematiche vessazioni e atrocità’, spiegano gli inquirenti. Centinaia, uomini, donne e bambini chiusi a chiave dentro enormi capannoni; pane duro e acqua di mare i pasti. Gli uomini picchiati con bastoni e tubi di gomma; frustati con cavi elettrici e minacciati costantemente con armi.
Le donne stuprate. Perché i familiari pagassero per liberarli e proseguire il viaggio. Erano i carcerieri a fornire i cellulari per contattare i familiari nei paesi di origine, a cui mandavano foto dei loro familiari torturati. A chi si rifiutava di telefonare o a chi cercava di fuggire venivano riservate violenze ulteriori: scosse elettriche, bastonature. Qualcuno è morto per le ferite. Qualcuno per la fame. Qualcuno è stato ucciso a colpi di mitra. Per chi non pagava la somma richiesta, circa 6 mila euro, il destino era quello di esser venduto ad altre bande criminali per lo sfruttamento lavorativo o sessuale. L’associazione organizzava anche la tratta di esseri umani, e l’immigrazione clandestina. Il centro di prigionia era proprio su una spiaggia da cui spesso partivano i barconi che trasportavano i migranti in Italia. Gli agenti stavano cercando gli scafisti ma raccogliendo le dichiarazioni dei migranti hanno trovato ‘ben altri e più gravi scenari di desolante degrado e di mercificazione e mortificazione dell’essere umano’, si legge nel decreto di fermo della Dda . I migranti hanno raccontato ‘degli estenuanti e lunghi viaggi affrontati per raggiungere dai loro Paesi di origine la Libia e da qui l’Europa; delle numerose e violente bande criminali intervenute, lungo il loro complesso percorso, per lucrare, anche attraverso lo sfruttamento lavorativo, sulla condizione di quanti, costretti dalle guerre o dalla povertà, intendevano raggiungere le coste italiane; della navigazione infine intrapresa verso il nostro Paese, pure stavolta mediante l’intervento di associazioni per delinquere’.
Racconti diversi, viaggi diversi, trafficanti e prigioni anche diverse, capannoni di prigionia e torture disseminati in tutta la Libia, e tutti avevano ‘un unico comun denominatore costituito da un periodo di illegale prigionia nella città libica di Zawiya’. Ognuno di loro, ‘dopo diverse traversie, veniva condotto, con inganno o violenza o previa vendita da una banda all’altra o, addirittura, da parte della stessa polizia libica’, era alla fine stato rinchiuso in questa ex base militare, vicino al mare ‘capace, dunque, di contenere le centinaia di persone che venivano all’uopo catturate nel corso del cammino intrapreso per raggiungere in Europa’. Un grande complesso, suddiviso in vari locali ( i migranti parlano anche della presenza di un container dell’OIM, ma non è dato sapere, allo stato – spiegano gli inquirenti – se fosse in disuso e utilizzato dalla criminalità locale) stracolmo di centinaia di migranti, ‘gestita da un’articolata associazione per delinquere, allora composta anche dai tre odierni indagati (tutti riconosciuti in fotografia), capeggiata da tale Ossama’. Lo scopo: ‘Quello di lucrare, quanto più possibile, e con la minore spesa, sulla peculiare condizione di chi, privo di ricchezze e di qualunque forma di tutela da parte degli apparati statali, decideva di fuggire dal proprio Paese di origine alla ricerca di migliori prospettive in territorio europeo’.
I migranti erano rinchiusi nell ex base militare, sorvegliati, ininterrottamente, da carcerieri armati. Tenuti in condizioni disumane, senza cure mediche necessarie, tanti sono morti per gli stenti o le malattie, ‘così come emerge da diverse dichiarazioni’. Sottoposti al ‘sistematico compimento, ad opera dei sodali, di continue e atroci violenze fisiche o sessuali, fino a giungere alla perpetrazione di veri e propri atti di tortura, talora culminate in omicidi’. E per ‘sequestrare e seviziare allo scopo di ottenere somme di denaro per far cessare lo stato di prigionia e le relative sevizie, l’organizzazione si era dotata di un apposito ‘telefono di servizio’, tramite cui i migranti prigionieri potevano contattare i loro congiunti, ovviamente alla presenza dei carcerieri, e così indurli a pagare il riscatto in somme di denaro per porre fine alla detenzione e alle atrocità subite spesso documentate tramite l’invio di fotografie’. E ‘quanti non riuscivano ad assecondare i desiderata dell’associazione in esame, finivano per essere trucidati o, in alternativa, se sfruttabili lavorativamente o sessualmente, venivano venduti ad altri trafficanti di esseri umani. Invece, chi pagava, veniva rimesso in libertà, ma con l’elevato rischio di essere nuovamente catturato dalla medesima associazione e di versare altro denaro ai carcerieri di Zawyia, così come, del resto, accaduto ad uno dei migranti sentiti nel presente procedimento, oppure da altre organizzazioni operanti in territorio libico’.
Sono soprattutto le dichiarazioni dei migranti a dare il quadro ‘concordande’ di quell’inferno a Zawiya, dove arrivavano dopoaver già subito violenze. Uno di loro Z. racconta – visibilmente scosso e tra le lacrime – di capannoni a Saba, dove i migranti, erano stati chiusi a chiave. Circa 20-30 persone, uomini e donne E ‘tutte le donne che erano con noi, una volta alloggiati all’interno di quel capannone sono state sistematicamente e ripetutamente violentate dai 2 libici e 3 nigeriani che gestivano la struttura’, armati di fucili mitragliatori e bastoni. ‘Ci davano da bere acqua del mare e, ogni tanto, pane duro. Noi uomini, durante la nostra permanenza all’interno di quella struttura venivamo picchiati al fine di sensibilizzare i nostri parenti a pagare’. Z. Non vuole chiamare i suoi familiari, si rifiuta, viene bastonato più volte, un giorno all’ennesimo rifiuto ‘con il calcio della pistola, dopo che mi ha immobilizzato il pollice della mia mano destra su un tavolo, mi ha colpito violentemente al dito, fratturandolo’. E ‘durante la mia permanenza all’interno di quella struttura ho avuto modo di vedere che gli organizzatori hanno ucciso a colpi di pistola due migranti che avevano tentato di scappare’.
Z. riesce a scappare, ma poi un tassista, porta lui e altri migranti, ingannandoli, pagato dalle bande criminali, nella ex base militare di Zawiya. La descrizione è precisa e dettagliata: ‘L’area era recintata con degli alti muri. Accedevamo tramite un grande portone blu. All’interno, l’area si presentava divisa per settori: a destra vi era la direzione e a sinistra vi erano gli alloggi delle guardie. Entrando a sinistra vi era l’area delle donne, poi quella degli africani dell’est (eritrea e Etiopia), e poi quella dei sub-sahariani. A destra vi era un campo di calcio dove vi erano tanti bambini, poi un container dei medici ed infine un container dell’OIM’. E ‘tale area era collegata, tramite un portone, a un’altra base militare operativa, in quanto lì vi erano i militari ed anche i carri armati. Tale base era in prossimità del mare e di una raffineria. All’interno potevamo essere circa 500 persone, uomini, donne e circa 15 bambini’. E le guardie non erano militari, erano 8 persone, di diverse nazionalità, egiziani, sudanesi, del Gambia, marocchini. Uno dei carcerieri è tra i fermati, ‘senza dubbio, il capo egiziano Mohamed, il quale alleva un gregge proprio accanto alla caserma militare, è il più terribile’. E’ lui che lo picchia più volte, lo bastona, lo tortura, ‘torture che mi hanno lasciato delle cicatrici sul mio corpo’, ‘sono stato frustato tramite fili elettrici’.
Ma la violenza ‘al fine di dimostrare il modo spietato con cui veniva gestita tale prigione’ era all’ordine del giorno per tutti: tre sudanesi che si erano lamentati delle guardie ‘sono stati ammazzati a botte’ da parte di un carceriere, anche lui sudanese: ‘Ho sentito, per tutta la notte le grida di dolore dei tre migranti, sottoposti alle continue angherie da parte della guardie’. Z. è rimasto chiuso in questo inferno da giugno a dicembre del 2018. Poi viene venduto. Ad un uomo che ‘mi ha trattato molto bene ed ho lavorato alle sue dipendenze, come bracciante agricolo, fino all’atto della mia partenza verso l’Italia’. Z. ha individuato ‘fotograficamente, e senz’ombra di dubbio, i suoi carcerieri e torturatori’. D, è del Camerun, i suoi genitori sono morti, nel suo paese c’è la guerriglia e decide di partire. In Algeria paga per arrivare in Libia ma appena arrivato a Sabratha è arrestato dai banditi ribelli al regime. Qui è imprigionato in un capannone con altri migranti, 50-60 persone, uomini, donne e bambini. Guardie libiche e nigeriane, armate. ‘Eravamo tutti sottoposti a continue violenze e torture da parte dei nostri carcerieri, poiché pretendevano il pagamento di una somma di denaro, da parte dei parenti, in cambio della nostra liberazione. Chi non pagava veniva torturato con la corrente elettrica. Ti davano delle scosse che ti facevano cadere a terra privo di sensi. Ho assistito personalmente a tanti omicidi avvenuti con la scossa elettrica. Succede che ti forniscono un cellulare con il quale contattare i parenti per esortarli a pagare il riscatto. Laddove non si ricevevano le somme richieste il migrante veniva poi ucciso’.
D. subisce la tortura delle scosse ma riesce a sopravvivere, poi viene liberato grazie all’Oim. Ma non vuole rimpatriare, c’è la guerra, così scappa. Ma un libico a cui si era affidato insieme ad altri lo vende ad alcuni banditi, del famigerato gruppo di ‘Asma boys’. Un’altra prigione, con altri migranti, e ‘anche lì, come nella precedente prigione, si sono ripetute le violenze e le torture’. E le uccisioni: ‘Anche in questa prigione ho assistito personalmente a diverse morti di migranti, i quali pativano per le lesioni riportate a causa delle continue violenze subite’. D. è venduto ad un libico che lo ha fatto lavorare come muratore, come schiavo, sorvegliato a vista col fucile. Tre-quattro mesi, poi riesce a scappare arriva a Zuara, ma anche qui ‘io ed altri migranti che eravamo in cerca di lavoro, venivano nuovamente catturati dai banditi di Asma Boys’. Erano tutti senza documenti, e sono stati venduti alla polizia, che li porta a Tagiura, e li rinchiude in un capannone, oltre 100 migranti, divisi in reparti, controllati a vista. C’erano anche donne e bambini: ‘Sostanzialmente era una prigione della polizia libica’. E ‘presso questa ultima struttura, malgrado c’erano funzionari dell’Oim, la stragrande maggioranza di noi migranti pativa la fame e la sete. Nessuno veniva curato e quindi lasciato morire in assenza di cure mediche. Personalmente ho assistito alla morte di tanti migranti non curati. Molti di noi aveva malattie alla pelle. Se qualcuno di noi reclamava qualche diritto veniva sistematicamente picchiato. In questa ultima prigione sono stato detenuto per circa un mese’.
Poi la polizia libica lo cede all’organizzazione criminale che gestisce l’ex base militare di Zawyia e ancora ‘torture, così come avveniva per altre centinaia di migranti. ‘Le condizioni di vita all’interno di questo carcere – racconta – erano dure. Ci davano da mangiare solo una volta al giorno e ciò non bastava per placare la nostra fame, mentre l’acqua era razionata e non era affatto potabile, poiché bevevamo l’acqua del bagno. Tutti i giorni venivamo, a turno, picchiati brutalmente dai nostri carcerieri. Dovevamo pagare il riscatto per la nostra liberazione. La somma richiesta si aggirava a circa 1000-1500-2000 euro. In caso contrario erano botte e torture. I carcerieri erano spietati. Il capo dei carcerieri si chiama Ossama’: lo descrive: adulto, muscoloso, con ampia stempiatura, capelli brizzolati, vestiva in abiti civili ed aveva delle pistole sempre al seguito, ed ‘è il più spietato. Egli era che decideva su tutto. Picchiava, torturava chiunque, utilizzando anche una frusta. A causa delle torture praticate OSAMA si è reso responsabile di due omicidi di due migranti del Camerun, i quali sono morti a causa delle ferite non curate. Anche io, inauditamente e senza alcun pretesto, sono stato più volte picchiato e torturato da Ossama con dei tubi di gomma, che mi hanno procurato delle vistose e doloranti lesioni in più parti del corpo. Tanti altri migranti subivano torture e sevizie di ogni tipo’.
D. dopo 3 mesi riesce a scappare approfittando di un alluvione. C’è chi racconta di essere riuscito anche ad imbarcarsi, insieme ad altri migranti, ma l’imbarcazione era ‘subito intercettata dalla polizia libica che ci conduceva nuovamente a terra per, poi, imprigionarci a Zawyia’ e portati in quella prigione, non lontano dal mare, con diverse centinaia, uomini, donne e bambini di varie nazionalità. Con le alte mura, dove ogni giorno rieccheggiavano ‘colpi d’arma da fuoco sparati a distanza ravvicinata’. Dove per bere solo l’acqua salmastra e sporca dei bagni e ogni giorno a turno, i migranti erano picchiati brutalmente dai carcerieri. E c’è anche chi ha pagato per andarsene ed è stato nuovamente catturato e riportato nel medesimo luogo per poi pagare una seconda volta per la sua definitiva liberazione. I racconti nelle carte dei magistrati si susseguono, descrivono torture e morte: ‘Ho visto morire tanta gente’, alcuni deceduti a causa delle ferite non curate, subite durante le violenze nei loro confronti’. Qualcuno è morto di fame. E c’è chi in quel carcere ha perso qualcuno che amava e ha lasciato qualcuno che vuole liberare: ‘Con me all’interno di quel carcere un’altra mia sorella, purtroppo è deceduta li dentro a causa di una malattia non curata. Mia sorella aveva al seguito le due figlie di 7 e 10 anni che sono ancora detenute li dentro’, e – ricorda – ‘ho visto molte donne che venivano spesso violentate da Ossama e dai suoi seguaci’.