Troppo traffico sulla vetta dell’Everest, 10 morti in una settimana

Una sopravvissuta: servono regole più restrittive video

everest_afp

La cima più alta del mondo non perdona e sembra volere respingere l’attacco di centinaia di alpinisti che cercano di raggiungere la vetta. In una settimana sono morte 10 persone che hanno tentato la scalata all’Everest. Alcuni sono morti durante la discesa, dopo aver passato ore in fila per raggiungere la cima, altri ai campi base a 7mila metri. Il moltiplicarsi delle morti è legato al grande traffico sulla montagna nella sua altissima stagione. Gli alpinisti in coda e fermi per ore sono a rischio congelamento e in condizioni complicate dalla rarefazione dell’ossigeno.

“Credo che il governo debba limitare i permessi per la scalata, soprattutto debba concederli solo ad alpinisti esperti e allenati, non a chiunque li chieda” dice l’alpinista Ameesha Chauhan che è rimasta bloccata in coda per ore in quella che è stata ribattezzata la “death zone”. Ora è ricoverata a Kathmandu per le conseguenze dell’assideramento. Sono oltre 300 i morti dell’Everest, su 4.800 scalatori che hanno affrontato la sfida per conquistare il tetto del mondo; i resti della maggior parte degli alpinisti che hanno perso la vita si trovano ancora sulla montagna, coperti da neve e ghiaccio, e in alcuni casi spesso ‘aiutano’ altri colleghi a seguire un percorso e a orientarsi rispetto alla cima da raggiungere, a 8.8239 metri.

Il recupero dei corpi degli scalatori deceduti rappresenta una sfida per le autorita’ governative e le associazioni competenti sia sul versante cinese che su quello nepalese. Si tratta di operazioni complesse: riportare a valle un corpo senza vita ha un costo molto elevato, che varia tra 40 e 80 mila dollari, in base all’altitudine e al punto in cui viene rinvenuto. Ma e’ anche un’impresa rischiosa, che richiede una missione di almeno otto sherpa, anche in considerazione del fatto che un corpo di 80 chilogrammi ne pesa mediamente 150 quando e’ ghiacciato. I corpi piu’ “antichi” rimasti sull’Everest si trovano li’ dagli anni ’20 del Novecento, quando ci furono le prime spedizioni per cercare di raggiungere la vetta.

La maggior parte, pero’, risale agli anni ’80, quando il monte inizio’ a diventare una meta turistica. Corpi di sherpa e alpinisti si trovano ovunque, nei crepacci, sepolti sotto valanghe, visibili lungo i pendii. Uno dei cadaveri piu’ famosi e’ quello di Tsewang Paljor, alpinista indiano morto a 28 anni nella tempesta del 1996, la cui storia e’ raccontata nel film “Everest”, uscito in Italia nel 2015. Paljor e’ morto indossando degli scarponi verdi ed e’ conosciuto come “Green Boots”. Nei periodi in cui c’e’ poca neve i suoi scarponi verdi sono diventati un punto di riferimento per gli alpinisti che hanno dovuto passare sopra le sue gambe nel loro percorso verso la vetta a 8848 metri.