di Filippo Caleri
Al punto che, raccontano, Vito Crimi, senatore grillino, membro della Commissione Affari costituzionali, sia diventato ascoltando le loro motivazioni, uno sponsor convinto delle loro ragioni. “Dimostrando molta più cultura istituzionale rispetto ai rappresentanti del Partito Democratico che la riforma la difendono a oltranza” spiegano le fonti a “Il Tempo”. Il pressing sulle istituzioni sta portando però i suoi frutti. Il 7 ottobre il comitato sarà in audizione davanti alla Commissione Affari costituzionali della Camera, la prossima settimana avranno la data dell’audizione davanti alla omologa del Senato e il 10 ottobre, dopo forti insistenze, avranno un colloquio con la ministra Madia, la più rigida oppositrice a qualunque modifica della riforma che porta il suo nome. A compattare in un fronte unico i manager dello Stato sono stati anche gli esperimenti di riorganizzazione avviati in molte parti d’Italia. In Toscana ad esempio l’accorpamento delle Asl ha ridotto il loro numero, portando risparmi nei bilanci regionali, ma lasciando contemporaneamente senza incarico decine di dirigenti che sulla base delle nuove regole vedrebbero decurtato severamente il loro stipendio. Anche al ministero dello Sviluppo Economico, il responsabile del dicastero Carlo Calenda, avrebbe chiesto di avviare una riforma delle direzioni generali che ne prevede il quasi dimezzamento. I timori che questi esperimenti siano solo l’antipasto di quello che accadrà dopo l’approvazione della riforma ha fatto sciogliere ogni dubbio agli interessati. Che ora meditano appunto la creazione di una federazione di tutti i dirigenti pubblici statali e locali. Un unico corpo in grado di rappresentare gli interessi di oltre 30 mila alti rappresentanti della macchina dello Stato.
Al loro fianco si potrebbe schierare il Movimento 5 Stelle che a loro dire ha, unico, compreso il rischio di creare con la regole Madia una dirigenza di affiliati e di prescelti dal potere politico. Dunque privi di autonomia. Non solo. Le grane create dalla contestazione al decreto che cambia lo status dei direttori potrebbe arrivare fino al premier. Sotto le sue finestre a Palazzo Chigi potrebbe trovarsi un presidio di superdirigenti per una protesta spontanea sullo stile di quelle organizzate con i social dai movimenti studenteschi. Nella sua casella postale, poi, Renzi potrebbe trovare anche una diffida per comportamento antisindacale. A sentire gli interessati infatti la riforma lederebbe il principio dell’autonomia contrattuale. Il rapporto che regola il trattamento dei dipendenti della Pubblica amministrazione è stato infatti privatizzato e tutta la disciplina della dirigenza è diventata oggetto di contrattazione negoziale tra funzione pubblica e sindacati. Una spazio di autonomia che sarebbe compresso in maniera unilaterale e verticistica dal provvedimento del governo. La via d’uscita secondo gli interpellati dal Tempo c’è: “Basterebbe spostare la riforma nella delega che il governo ha chiesto al Parlamento sulla riforma del testo unico del pubblico impiego. Ci sarebbe più tempo per un confronto più sereno e per evitare strappi”. Ma i più sono scettici. I risparmi ipotizzati con la riscrittura delle regole sarebbero già stati ipotecati nella nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza. Che di risorse a disposizione sembra averne veramente poche. Così Renzi sta per compiere un altro miracolo. Portare in piazza una categoria che finora non esisteva: una maggioranza silenziosa di alti burocrati che, visto le posizioni che occupano, non mancheranno di fare molto rumore.