Il Marocco è stato largamente risparmiato dalla violenza jihadista osservata in altri paesi del Nord Africa da quando, nel 2011, una bomba piazzata dall’Isis in un caffè di Marrakech ha spezzato 17 vite. L’uccisione delle due escursioniste scandinave: la danese Louisa Vesterager Jespersen di 24 anni, e la 28enne norvegese Maren Ueland trovate morte lunedì scorso sulle montagne dell’Alto Atlante è il primo attacco di probabile matrice terroristica nel regno dal 2011. Un attacco che solleva un allarmante interrogativo: La jihad islamica arriva ora dal “tranquillo” regno del sovrano Mohammed VI, meta di milioni di turisti occidentali ogni anno?
Vera fucina di foreign fighters fin dai tempi di al Qaida di Osama bin Laden in Afghanistan, il paese ha dovuto adottare una rigida legislazione antiterrorismo, rafforzata negli ultimi anni, per affrontare la minaccia dei suoi cittadini che sono tornati a casa dopo aver combattuto per l’Isis in Siria e Iraq. Dal 2015, nel regno sono state smantellate 45 cellule terroristiche, arrestate 698 persone, anche se nel contempo ben 1.664 marocchini hanno lasciato il Paese per unirsi alla jihad in Siria e Iraq. Numeri che sono stati confermati in un’intervista rilasciata a La Stampa lo scorso anno da Abdelhaq Khiame, direttore dell’Ufficio Centrale delle Investigazioni Giudiziarie, insomma l’FBI di Rabat.
Prevenzione, intelligence, de-radicalizzazione sono gli ingredienti che fino ad oggi hanno permesso al Marocco di tenere a bada il fenomeno jihadista imperante in Paesi vicini come la Libia. Dal 2003, nel regno sono state bandite moschee e guide religiose non autorizzate. I sermoni del venerdì, prima di essere letti in moschea, devono passare al vaglio per la convalida da un Alto Consiglio degli Ulema nominato dal governo. Gli stessi imam vengono sottoposti a corsi di formazione secondo l’Islam malikita sunnita e moderato.
La monarchia che si regge sui pilastri di un sistema giuridico permeato dalla legge islamica, gode di ampio consenso tra la popolazione e vanta pieno controllo del territorio. Un sistema che mescola oppressione, consenso e prevenzione che sembra funzionare. Eppure un recente rapporto dell’Onu pubblicato l’estate scorsa stima in 1.600 il numero di combattenti marocchini su cui può contare ancora oggi il Califfato nonostante le recenti pesanti sconfitte dell’organizzazione in Siria, Iraq e la vicina Libia.
Inoltre, negli ultimi anni, i jihadisti di origine marocchina sono stati coinvolti in attacchi terroristici in Europa: in Belgio come in Francia e Spagna. All’indomani dell’attentato di Barcellona dell’agosto dello scorso anno, quando un furgone si è lanciato sulla folla uccidendo 23 persone e ferendone 86, gli occhi dell’intelligence internazionale sono tornati a scrutare il Marocco, che ha dato i natali al giovane 22enne alla guida del furgone Younes Abouyaakuub.
E’ vero che in termini di presenza jihadista, sia l’Isis che il suo rivale al-Qaeda non sono riusciti a stabilirsi in Marocco. Ma ciò non ha escluso la possibilità di attacchi da parte di piccoli gruppi o lupi solitari che ritengono sia loro dovere agire come potrebbe essere il caso degli assassini delle due scandinave. Sta di fatto che il brutale duplice omicidio di lunedì è un campanello d’allarme che mette a rischio l’industria del turismo che l’anno scorso con 11 milioni di visitatori ha portato 6,5 miliardi di dollari che rappresentano il 9% del pil nazionale. askanews