Un test promette il 90% di accuratezza, ma si rischia sempre di diagnosticare la malattia a chi in realtà è sano. Ecco qualche numero
Da anni gli scienziati che studiano l’Alzheimer hanno cominciato a dirigere una parte dei loro sforzi nello sviluppo di un metodo di screening della malattia, ovvero un qualche tipo di test che consenta di rilevare una patologia prima che si manifestino i sintomi. Anche se è stato proposto che la dieta e l’attività fisica e intellettuale contribuiscano a ridurre il rischio, al momento non ci sono solide linee guida per la prevenzione dell’Alzheimer, e anche per quanto riguarda il suo trattamento farmacologico si tratta di palliativi: a cosa servirebbe, allora, uno screening, che di solito è mirato a fermare la malattia prima che sia troppo tardi? Dal punto di vista della ricerca medica, certamente lo sviluppo di un test aiuterebbe a selezionare candidati idonei per i trial clinici di nuovi farmaci in sperimentazione, ma questa esigenza deve necessariamente scontrarsi col fatto che, dal momento che nessuno screening è efficace al 100%, i falsi positivi si tradurrebbero in persone erroneamente convinte di essere condannate a una terribile malattia neurodegenerativa che mette a durissima prova sia il paziente che i suoi cari. Per fare un confronto, anche lo screening mammografico è tutt’altro che perfetto, ma in questo caso, nonostante i falsi positivi, si riescono davvero a salvare moltissime vite.
Quanto dovrebbe essere accurato, allora, un test per l’Alzheimer perché la società intera possa trarne vantaggio? Negli ultimi giorni abbiamo letto ovunque di uno studio, pubblicato nientemeno che su Nature Medicine, dove si presenta un test basato sull’analisi di 10 lipidi contenuti nel plasma sanguigno capace di predire l’insorgere della malattia nell’arco di 3 anni. L’accuratezza riportata di questo test è del 90%, e lo abbiamo trovato nei titoli o nelle prime righe di tutti i principali media, compresi quelli altamente specializzati come lo stesso Nature News. Quello che invece si è perso nell’entusiasmo è cosa significhi all’atto pratico quel 90%. Ci hanno pensato i soliti watchdog della comunità scettica, come il farmacologo David Colquhoun (University of College London), che sul suo sito DC’s Improbable Science ha proposto un ripasso di statistica per dare il giusto peso ad alcune notizie. L’Alzheimer ha una prevalenza nella popolazione di circa l’1%, cioè statisticamente 10 persone su 1.000 ne sono affette e prima o poi ne svilupperanno i sintomi. Immaginiamo ora di testare queste 1.000 persone con il nostro test al 90% accurato. Il test identificherà correttamente 9 malati su 10 reali, ma ci dirà anche che tra i 990 individui sani il 10% (99 persone) è malato quando in realtà non lo è affatto. Solo l’8% delle persone che risultano positive al test, quindi, svilupperà davvero la malattia, non il 90%, come intuitivamente si potrebbe pensare.
E anche testando solo gli ultrassessantenni, dove la prevalenza sale al 5%, ancora i ⅔ degli individui positivi sarebbero in realtà sani. Su Ampp3d, il sito di data-journalism del Daily Mirror, potete vedere la rappresentazione visuale di questo esempio. Come mai allora questo tipo di test non viene presentato al pubblico in modo più critico? La responsabilità questa volta non è solamente dalla parte del mondo dell’informazione. Colquhoun cita per esempio un articolo sul British Medical Journal di Margaret McCartney, medico e scrittrice specializzata in evidence-based medicine. Secondo Mccarteney, anche se lo UK National Screening Committee non ritiene di dover dare spazio a procedure di screening per l’Alzheimer all’interno del servizio sanitario nazionale del Regno Unito, gli ospedali pubblici sono incentivati economicamente a diagnosticare precocemente la malattia, cominciando col chiedere a tutti gli over-75 ricoverati se nell’ultimo anno hanno avuto disturbi di memoria tali influenzare la vita di tutti i giorni. Se il paziente risponde “sì” si prosegue con la valutazione diagnostica, e come minimo molte persone vanno incontro a inutili preoccupazioni.
Chi ci guadagna? Sempre secondo McCartney, con una popolazione che invecchia questi screening per l’Alzheimer portano un aumento delle diagnosi di deterioramento cognitivo lieve, un altro disturbo che spesso (ma non sempre) può evolvere nell’Alzheimer ma per il quale, come per quest’ultimo, non esistono cure ma solamente palliativi, anche con un certo costo. Perdere qualche colpo di memoria, insomma, potrebbe a volte non essere nulla di grave, mentre è sicuramente grave che, specialmente allo stadio attuale delle ricerche, i pazienti vengano sottoposti a questo tipo di pressioni. Vero che l’Alzheimer può essere sottovalutato, ed è chiaro che la diagnosi opportuna deve arrivare il prima possibile, ma nonostante l’enfasi di questi giorni i vantaggi di un vero e proprio screening della popolazione, indipendentemente dalla sua natura, sembra non siano scientificamente evidenti.