di Giuseppe Novelli
La maggioranza dei ministri dell’Interno dell’Ue, riuniti in un Consiglio informale ad Amsterdam sotto la presidenza di turno olandese, ha chiesto alla Commissione europea di attivare le procedure previste dall’articolo 26 del Codice delle frontiere di Schengen, che permette, a certe condizioni, di prorogare dagli attuali sei mesi a due anni le misure di ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere interne dell’area di libera circolazione, quando queste misure siano state adottate da uno o più Stati membri a causa di una “minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna”. Sei Stati membri dell’Ue (Germania, Austria, Danimarca, Svezia, Francia, Slovenia) e un settimo paese membro dello spazio Schengen ma non dell’Ue, la Norvegia. La condizione principale affinché questa proroga fino a due anni sia possibile è che la Commissione abbia prima constatato, in uno o più Stati membri e con un rapporto di valutazione specifico, “gravi carenze nello svolgimento dei controlli alle frontiere esterne” che determinino, anche in questo caso, “una minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza” in seno allo spazio Schengen.
“Gli Stati membri hanno invitato la Commissione europea a preparare le basi giuridiche e pratiche per la continuazione delle misure temporanee introdotte alle frontiere interne, in base all’articolo 26 del Codice di Schengen”, ha riferito il ministro olandese dell’Interno, Klaas Dijkhoff, al termine della riunione, da lui presieduta. La valutazione sull’esistenza di eventuali “carenze gravi” nei controlli alle frontiere esterne di Schengen in Grecia è già in corso da parte della Commissione, e dovrebbe essere completata prima dell’inizio di maggio, quando scadranno i sei mesi di durata massima dei controlli temporanei alle frontiere interne dai sette paesi che li hanno reintrodotti finora. Se la Commissione accerterà le “carenze gravi” in Grecia, e se Atene non sarà riuscita nel frattempo a porvi rimedio, l’Esecutivo comunitario potrà presentare una proposta di raccomandazione al Consiglio Ue che solleciti il mantenimento dei controlli temporanei già reintrodotti alle frontiere interne fino a due anni in totale, sommando tre ulteriori proroghe di sei mesi. La decisione sulla raccomandazione in Consiglio Ue può essere presa a maggioranza qualificata.
Va sottolineato che non si tratta, come certe semplificazioni di stampa hanno lasciato intendere nei giorni scorsi, di una “sospensione di Schengen”, ma di una misura prevista dalle stesse regole di Schengen (il “codice”), proprio per salvaguardare lo spazio di libera circolazione in caso di crisi ai suoi confini esterni, attivando temporaneamente una sorta di “seconda linea” solo ad alcune delle frontiere interne. Inoltre, proprio l’attivazione dell’articolo 26 serve a tenere dentro Schengen i paesi membri che potrebbero essere costretti, altrimenti, a uscirne per poter mantenere controlli considerati necessari alla sicurezza interna. Lo ha spiegato lo stesso ministro Dijkhoff, affermando che la discussione sull’articolo 26 “si è svolta chiaramente non nella prospettiva di cacciar fuori un paese (all’occorrenza la Grecia, ndr), ma in quella di tenere gli altri dentro (allo spazio Schengen, ndr) continuando ad applicare le loro misure nazionali temporanee”, visto che la scadenza “normale” di sei mesi “non sarebbe abbastanza lontana da permettere di risolvere la crisi e smantellare i controlli”.
Non è chiaro se il rapporto della Commissione sulle frontiere in Grecia – che non sarà reso pubblico per ragioni di sicurezza – potrebbe essere pronto per il prossimo vertice Ue di metà febbraio, a Bruxelles. Per il resto, durante la riunione informale dei ministri dell’Interno dell’Ue c’è stato uno scambio di accuse fra la Grecia e diversi paesi del Nord (soprattutto Austria, Svezia, Belgio) che accusano Atene di non fare abbastanza per arginare il flusso di immigrati irregolari che approdano nel Paese e da lì proseguono, spesso senza essere stati identificati e registrati, sulla “rotta balcanica” verso l’Europa settentrionale. Il ministro greco Ioannis Mouzalas, da parte sua, ha riposto che la scarsa efficacia di Atene nella gestione della crisi dipende anche dal mancato mantenimento degli impegni di solidarietà e assistenza che avevano preso gli altri Stati membri. Atene aveva chiesto, ad esempio, 1.800 agenti di Frontex e 28 navi guardacoste, ma ha avuto finora solo 800 agenti e sei guardacoste, ha ricordato Mouzalas. Nei giorni scorsi, l’austriaca Johanna Miki-Leitner aveva addirittura proposto di “isolare” la Grecia da Schengen, “blindando”, anche con l’invio di guardie di frontiera dell’Ue, i suoi confini con la Macedonia, che non è neanche (ancora) uno Stato membro dell’Unione, né di Schengen.
Era soprattutto una provocazione, o una minaccia, com’è apparso subito quando la Commissione europea ha fatto sapere già ieri, per bocca del commissario Ue all’Immigrazione Dimitris Avramopoulous (un greco), che si tratterebbe semplicemente di una decisione illegale. Fra l’altro, l’Agenzia Frontex per le frontiere esterne non può operare fuori dal territorio Ue. Ma i ministri hanno comunque chiesto alla Commissione di esplorare altre possibilità per sostenere i controlli in Macedonia, con aiuti finanziari e assistenza tecnica. D’altra parte, diversi paesi (Germania, Francia, Italia, Spagna), pur sostenendo la necessità di rafforzare i controlli alle frontiere esterne, si sono rifiutati di sottoscrivere le minacce contro Atene, e hanno appoggiato la Commissione. Si è discusso, infine, sulla base di una serie di questionari, del nuovo pacchetto sul rafforzamento di Frontex e sulla creazione del nuovo corpo di guardie di frontiera e guardacoste Ue, che è stato proposto dalla Commissione e che la presidenza di turno olandese si è impegnato a far adottare dal Consiglio Ue entro giugno. Da notare che almeno sei Stati membri, fra cui l’Italia (gli altri sono Spagna, Cipro, Malta, Grecia e Polonia) si sono opposti alla possibilità, ventilata nella proposta di Bruxelles, che la nuova guardia di frontiera “federale” possa intervenire sul loro territorio anche in assenza del loro esplicito consenso.