Un giorno a Kobane, piccola Stalingrado curda che argina l’Isis

Kobanê

di Adib Fateh Ali

Patriottismo, ideali comunisti e droni Usa: sono questi i componenti della miscela che sta arginando la marea nera del Califfato di Abu Bakr al Baghdadi (foto). Kobane è una piccola Stalingrado dei nostri tempi. Dal 16 settembre è accerchiata da tutti i quattro lati: a Est come a Sud e Ovest è nel mirino dei terroristi islamici. Il confine Nord invece è presidiato dalla polizia turca che impedisce uscita e ingresso a chiunque, dai curdi della Turchia che vorrebbero accorrere in rinforzo, ai reporter stranieri che vogliono vedere da vicino cosa accade a Kobane. Così, si entra in città di nascosto, attraversando un corridoio grazie al supporto di un “contrabbandiere”. La notte la si passa in una casa dove alloggiano alcuni combattenti siriani dell’Unità di Protezione del Popolo (Ypg), che poi non è altro che la branca siriana del Pkk, il partito separatista dei lavoratori del Kurdistan turco, messo da Ankara sulla lista delle organizzazioni terroristiche.

Sono tutti giovani, male armati e peggio nutriti. Offrono una cena a base di “hummus” e “dolmados”. Il cibo è scarso ed è in scatola. Dopo cena Afrin, un giovane con il fazzoletto rosso legato al capo, canta “Bella ciao” in versione curda. “Qui tutti noi crediamo nell’Internazionale socialista e combattiamo per difendere la nostra città ma anche per i valori di libertà e di democrazia nel mondo”, dice al reporter di askanews. Dopo una nottata in bianco a causa della tensione, del frastuono delle bombe e dei colpi di mortaio dell’Isis, si esce la mattina con Surud, dell’ufficio media dell’Ypg. La città ha un aspetto livido. In giro, solo edifici ridotti in macerie. Grossi veli fissati ai due lati delle vie che portano a Est, oscurano la visuale ai cecchini del Califfo. Per muoversi a piedi bisogna districarsi tra le macerie e centinaia di proiettili di mortaio inesplosi. “Sono fabbricati dai combattenti ceceni e spesso per fortuna non esplodono”, dice Surud. “Usiamo la polvere da sparo per fare bombe a mano”.

Si arriva all’unico forno in funzione. Sono le 8 del mattino: “Sforniamo 7mila pita al giorno che vengono distribuite gratis ai 3mila abitanti rimasti e inviati a vari fronti”, dice uno degli addetti. Nel solo presidio medico poco distante ci sono 3 infermieri curdi: “Oggi non ci sono feriti. Quelli gravi li trasportiamo in Turchia ma lì, in ospedale, vengono piantonati dalla polizia turca”. Poi al “Municipio provvisorio”. In città abitavano almeno 150.000 persone più altrettanti rifugiati arrivati da altre zone della Siria per sfuggire alle guerra che dura ormai da quasi tre anni, racconta Goran, il responsabile della struttura che cerca di risolvere i problemi urgenti degli abitanti rimasti: tutti anziani e bambini, “chi può usare le armi, sia femmina o maschio, è al fronte”, dice Goran. Acqua ed elettricità sono state tagliate dall’Isis: “L’acqua la tiriamo fuori dai pozzi e quella potabile arriva in bottiglia dai cancelli di confine di Mursitpinar”, la parte turca di Kobane.

La battaglia non è finita, dicono i difensori della città. I combattenti dell’Ypg, con i Peshmerga curdi iracheni, oppongono una feroce resistenza partigiana, armati con vecchi kalashinkov. Senza giubbotti anti-proiettili e in scarpe Nike, vanno contro gli Hammer dei jihadisti armati dagli MG30. Con questi soldati, che sono riusciti a contenere l’avanzata dell’Isis, c’è anche uno sparuto gruppo di miliziani dell’Esercito libero siriano: “In tutto sono 34 persone”, ci dicono i curdi. Si tratta delle brigate, braccio armato dell’opposizione “moderata” siriana inviate a Kobane per espresso volere del premier turco Recep Tayyip Erdogan che non vuole il predominio del Ypg nella città.

Un perfetto esercito ben organizzato, ma senza paga e senza orario, a difesa di una città che è diventata un simbolo mondiale con la sua resistenza ad ogni costo. “Nessuna organizzazione umanitaria si è presentata da questi parti”, dicono i combattenti. L’unico soccorso può arrivare solo dal cielo: per due volte sono stati gli aerei statunitensi a paracadutare aiuti e munizioni in città
Per arrivare al fronte bisogna attraversare una fitta rete di cunicoli: si passa da un buco all’altro nei muri delle case fino agli avamposti dei partigiani curdi che scrutano a occhio nudo il nemico, sull’altro versante della strada. Nei distretti orientali, nella zona industriale di Sina’a, in prossimità delle colline di Mushta Nur, nel quartiere di Misher e nel distretto di Taxa Araban. Gli scontri sono ravvicinatissimi, si combatte metro per metro. Oggi i jihadisti “controllano il 30 per cento della città”, rispetto al 60% di alcune settimane fa, dicono i combattenti. Che la situazione sia migliorata per i difensori della città lo testimonia anche il fatto che le bandiere nere del Califfato islamico non sventolano più sugli edifici presi dall’Isis.

“Senti l’odore del piombo”, dice il soldato curdo dopo aver centrato con il suo fucile un jihadista dell’Isis dalla sua postazione sulla linea del fronte. Il cecchino, nome di battaglia “Caino”, è felice: “Oggi è una giornata fortunata” dice mentre il suo elegante e agile comandante “Haqqi”, gli fa i complimenti ed afferma: “Caino è nato per uccidere, ne ha uccisi molti di questi tagliatori di teste”.

Al fronte si vede tutto dall’avamposto che dà sulla piazza Azadi che fino a pochi giorni fa era in mano ai seguaci del califfo, ma oggi è una zona che divide i due schieramenti. Si vedono i cadaveri di alcuni combattenti dell’Isis stesi sulle macerie. Si sente persino la voce del nemico. Attraverso la radio che porta in mano Haqqi, si ascoltano i jihadisti che lanciano l’allarme sull’arrivo di un aereo.

Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti dell’uomo, dall’inizio di dicembre i morti a Kobane sono stati 1.153: di cui 54 civili, 387 combattenti dell’Ypg, e 712 jihadisti. La battaglia però non è finita. Per vincerla “abbiamo bisogno di due cose”, dice la comandante a difesa della città Asia Abdullah: la prima “aprire un corridoio umanitario attraverso la Turchia per far arrivare viveri e medicine”; l’altra è riuscire a “far giungere al mondo la voce che la nostra battaglia è una lotta di liberazione partigiana contro un nemico fascista, che minaccia i valori di democrazia dell’occidente”.

Anche Mustafà, responsabile media dell’Ypg, vuole sottolineare il carattere ideologico della battaglia del partito: “Noi amiamo tutti i colori della vita, specialmente quello rosso – dice – è per questo che siamo determinati a dare la vita pur di non far prevalere il nero, colore dei jiahdisti che vuole soffocare tutti gli altri colori”. Mustafà, come molti altri a Kobane, dice che i raid Usa sono utili, “ma gli americani fanno quanto basta per non lasciarci morire e non per annientare l’Isis”.

Appare evidente che a dare linfa vitale ai combattenti di Ypg, è il Pkk. Dall’altra parte del confine c’è tutto un popolo, quello curdo appunto, mobilitato dal Pkk per far giungere clandestinamente attraverso la frontiera cibo, munizione e armi ai loro compatrioti curdi siriani. Bandiera del Kurdistan, foto del leader storico del Pkk Apo Ocelan sono appesi in molte case di Kobane. Patria e Ideologia di un partito “marxista leninista” accompagnano una guerra di partigiani del XXI secolo, che promette la prima sconfitta militare dei jihadisti del califfato nero. L’unica, per ora.