Un servizio per abbattere le barriere sociali. E’ questo che il teatro, il teatro d’opera, deve essere secondo Francesco Giambrone, sovrintendente della Fondazione Teatro Massimo di Palermo, alla guida del maggiore teatro del capoluogo siciliano, dopo l’era Cognata e i dissidi con il sindaco Orlando, il buco finanziario e il conseguente commissariamento firmato Guttuso. “Penso – dice il sovrintendente, durante la nostra breve chiacchierata – che il teatro debba essere un luogo che abbatte le diseguaglianze. Una ‘Parolona’ questa – continua sorridendo consapevolmente – in un teatro che è sempre stato luogo elitario fatto di smoking, abiti da sera, del quale si è pensato ‘Io non me lo posso permettere, non è luogo per me’. Ma noi vogliamo il contrario. Quel posto – sottolinea in modo acceso – ‘E’ per me, Io me lo posso permettere’”. Una filosofia questa conclamata dagli spot pubblicitari per la nuova Stagione del Massimo e che invitano il pubblico a considerare il teatro come la loro propria casa. “Non si può non cogliere il dato che se vuoi abbattere le diseguaglianze nella società – continua a ribadire Giambrone – una delle cose ad esempio che devi fare è fare in modo che il prezzo non sia una barriera di ingresso e di accesso”.
La Politica dei prezzi. E’ questa una delle tematiche calde per i teatri d’opera. Quella che la gente sente particolarmente vicina. Quella che nei tempi ha allontanato il pubblico dall’Opera considerato appunto uno spettacolo elitario, per gente ricca. Tematica questa che in Europa e in America è stata affrontata varando diverse combinazioni tese ad allettare il pubblico più diversificato. L’Italia, a parte alcune realtà, come il Massimo, stenta ancora a far decollare iniziative che consentano una maggiore fruizione di pubblico agli spettacoli. “Nel corso di questi anni – spiega il sovrintendente della Fondazione palermitana – la nostra politica dei prezzi è variata favorendo una maggiore apertura affinché la gente possa andare a teatro, facendo in modo che il prezzo del biglietto non sia il problema più grande. Ecco – continua proponendo – questo è un tema che la crisi nei teatri deve porsi: non tanto il produrre meno quanto invece capire che c’è una condizione di impoverimento dei ceti: del ceto medio, della borghesia, dei giovani che non trovano lavoro; con questa condizione continuare a mantenere prezzi alti, riempi magari lo stesso il teatro, io non saprei perché noi non facciamo quei prezzi, ma si incrementa il tema della disuguaglianza sociale”.
L’era Giambrone, sembra quindi puntare sull’abbattimento delle barriere sociali che il teatro d’opera avrebbe innalzato in questi anni se non addirittura secoli, considerando le teorie di Adorno sulla auto referenzialità dell’Opera per una certa casta di pubblico, ma punta anche a portare il Massimo al di là del semplice successo regionale e cittadino con politiche culturali e non che, rispondendo anche alle esigenze dettate della legge Bray – il Massimo è una delle Fondazioni che hanno aderito al piano di ristrutturazione previsto dalla legge il quale prevedeva l’abbattimento delle criticità finanziarie attraverso una serie di provvedimenti amministrativi, ma anche in ambito di scelte culturali – , cerchino al tempo stesso di avvicinare ancora più il teatro al pubblico e rilanciarlo in campo internazionale. “E’ vero che le nuove norme previste dal governo – spiega il sovrintendente – come anche quelle che sono in via di definizione (come dottare entro il 2016, ora prorogato al 2018, misure volte al contenimento dei costi, una politica commerciale e di marketing più aggressiva per aumentare i ricavi, e una maggiore attività di fund raising dai privati. Ndr.) sembrano essere tutte orientate verso l’incremento di quelle attività cosiddette di internazionalizzazione delle Fondazioni. E’ scritto e non c’è dubbio che questo è uno stimolo. Però – continua – è anche vero che un grande teatro che rimane fermo, chiuso nella sua casa, magari crescendo all’interno e non avendo una proiezione, o delle reti, di relazioni internazionali oggettivamente non è un grande teatro”.
Essere un “grande teatro”, questa è sempre stata del resto la vocazione del Massimo, già ai tempi della sua edificazione e già implicita nel suo nome “Il Massimo”, il Massimo Teatro. L’operato quindi di Giambrone mira a restituire questa grandezza, ma non solo. “Stiamo facendo uno sforzo di crescita complessiva – continua a spiegare il sovrintendente del Massimo – che ci vede impegnati da una parte in una maggiore relazione con la città, una molto più forte relazione con la città, che il teatro Massimo ama, e che aveva perduto. Un incremento delle attività di produzione e del pubblico presente agli spettacoli, e dall’altra parte la creazione di una dimensione della proiezione internazionale: il che vuol dire co produrre con i teatri del mondo; vuol dire essere presente in tournee almeno una volte l’anno; vuol dire registrare dischi che prima non venivano registrati; vuol dire scegliere di fare questa attività con grandissimi artisti. In tournee siamo stati con la Diana Damrau, i dischi li abbiamo registrati con Sollima e con Kaufman: questo è il tipo di attività che facciamo e che vogliamo spingere sempre di più, perché questa ci sembra la strada giusta!”. Tra gli sforzi innovativi della Fondazione, sicuramente, l’avvio dello streaming – la trasmissione via web – degli spettacoli in produzione. “Lo streaming fa parte di quella apertura all’innovazione nella comunicazione del teatro che per noi è fondamentale. Funziona benissimo e soprattutto non ci toglie pubblico. Questo era stato il timore iniziale, ma ci siamo presto accorti che anzi lo incentiva. Abbiamo dati di pubblico molto positivi. Quest’anno ad esempio abbiamo un ulteriore 10% in più di abbonati e venivamo da un anno, il 2016, in cui gli abbonamenti erano cresciuti del 20%. I numeri ci danno ragione. In più la diretta in streaming apre il teatro all’esterno: credo anzi che stimoli curiosità, che stimoli la voglia di andare a teatro. Naturalmente la magia, la forza, l’emozione, di vedere uno spettacolo dal vivo non può essere superata da nessuno streaming, però in questo modo possiamo svolgere un servizio aiutando, chi non può per un motivo, o un altro, essere all’interno”.
Tutte attività queste che l’Europa, gli Stati Uniti, hanno già attivato da tempo, comprendendo che solo così si combatte la crisi del settore operistico e musicale. Comprensione questa che in Italia sembra essere ancora lontana, se si escludono alcuni casi isolati, come il Carlo Felice di Genova e lo stesso Massimo di Palermo. “Perché l’Europa è sempre stata avanti”, non può fare a meno di concordare Giambrone. “Noi arriviamo sempre al traino, sempre in seconda battuta alle cose. L’Europa ci è arrivata da sempre – ribadisce – questo infatti è uno dei grandi temi delle politiche culturali: la migliore misura anticiclica è quella dell’investimento non del ripiegamento su se stessi. I paesi che hanno reagito meglio alla crisi sono quelli che hanno investito sulle politiche culturali, e i teatri che reggono meglio sono quelli che investono e quindi che producono di più. Alcuni però propugnano ancora l’altra strada, quella che vorrebbe, non avendo più soldi o avendone pochi, una riduzione della produzione. Ma questo vorrebbe dire attivare un circuito perverso negativo che ti porta alla fine alla chiusura, o comunque alla delegittimazione sociale. Noi pensiamo invece che la cosa giusta sia questa: aprirsi produrre di più ed entrare in un grande giro internazionale. Che poi è la normalità, non sono cose straordinarie, dovrebbe appunto essere questa la normalità”. Una normalità che come detto sembra essere ancora lontana in Italia dove la Legge Bray ha gettato le fondazioni in un baratro più profondo che mai portando ad aprire contenziosi con i dipendenti, orchestrali e corpo di ballo – l’Arena di Verona, l’Opera di Roma, gli esempi più eclatanti – e faticando non poco a cambiare drasticamente modus operandi che vedeva e vede ancora in produzioni grandiose dove la firma registica sembrava e sembra essere l’elemento più importante a discapito dei cast e della parte musicale. Altro fattore, questo, che i teatri europei e americani hanno abbandonato da tempo.
“Noi cerchiamo di fare tutte e due le cose – asserisce il sovrintendente del Massimo – di bilanciare con un certo numero di nuove produzioni, volendo anche stimolare la curiosità del pubblico, e le riprese di allestimenti precedenti. Tenendo anche conto che i teatri italiani non sempre, come quelli delle grandi città europee ed oltre oceano, possono contare su un pubblico di turisti molto importante o predominante. Palermo tuttavia, negli ultimi tempi, ha iniziato ad avere un flusso turistico significativo e noi siamo ora pieni di turisti. Sarebbe quindi più facile a questo punto seguire l’esempio europeo. Però noi bilanciamo, riprendiamo le nostre produzioni: per esempio il prossimo anno riprenderemo Tosca, che abbiamo fatto solo nel 2014. I cast poi per il Massimo sono assolutamente centrali, perché non vogliamo incappare nell’errore di privilegiare il teatro di regia dimenticando che questo è teatro musicale e che quindi quantomeno ci deve essere pari dignità, non dico chi viene prima e chi viene dopo, importa poco, bisogna produrre, proporre, confezionare uno spettacolo che cammini bene da tutti i punti di vista. Fare spettacoli che funzionano solo dal punto di vista del teatro di regia e non da altri punti di vista, non su quello musicale, è un grandissimo errore”. I dieci minuti a disposizione volano. Tante altre le domande da porgere – come ad esempio l’attuale situazione del corpo di ballo, ma solo una risposta. Una chicca. L’annunciato ritorno di Zubin Metha nel 2018, potrebbe avvenire “forse anche prima”.