Gli Stati Uniti hanno un serio problema nel Pacifico: si chiama Duterte

Gli Stati Uniti hanno un serio problema nel Pacifico: si chiama Duterte
28 settembre 2016

di Antonio Moscatello


obamaduterte2Gli Stati uniti hanno un nuovo problema in Asia ed è un problema che ha la faccia riconoscibilissima di Rodrigo Duterte, il sulfureo presidente filippino che ha fatto inorridire l’Occidente con la sua sanguinaria guerra alla droga e che ora sta riallineando la politica estera di Manila in senso filocinese e filorusso, rompendo un tradizionale legame con l’America, della quale l’arcipelago è stato colonia. Duterte sta deteriorando, con l’irruenza che gli è tipica, i rapporti con gli Stati uniti, facendo fare al suo Paese un’inversione a “U” che avrà costi importanti per Manila, ma che potrebbe creare non pochi problemi strategici anche agli americani, i quali rischiano di perdere un alleato chiave nella loro strategia di contenimento della crescente potenza cinese, soprattutto in relazione al controllo del Mar cinese meridionale. Le manifestazioni più evidenti e folkloristiche di questo allontanamento sono state le volgari offese profferite dal leader filippino nei confronti del presidente Usa Barack Obama (“un figlio di puttana”) e dell’ambasciatore americano (“omosessuale, figlio di puttana”). Reazioni di pancia, dopo le critiche espresse da Washington e dalle Nazioni unite – per le quali ha avuto parole altrettanto gentili – ai metodi usati dal suo governo nella sbandierata guerra contro il narcotraffico, che dall’inizio della presidenza attuale (30 giugno 2016) è costata qualcosa qualcosa come 3mila morti, molti dei quali in esecuzioni sommarie da parte della polizia. Gli Stati uniti sono stati la metropoli coloniale delle Filippine dal 1898, quando strapparono l’arcipelago alla Spagna con una breve ma sanguinosa guerra. Negli anni bui dell’occupazione giapponese, durante la guerra del Pacifico, il rapporto tra America e Filippine si rinsaldò ulteriormente: furono oltre 200mila i filippini che combatterono sotto le insegne americane. Nel 1946 l’arcipelago divenne indipendente dagli Usa e nel 1947 gli Stati uniti ottennero di poter mantenere nelle Filippine due grandi basi militari, considerate strategiche per la presenza americana nel cruciale teatro dell’Asia-Pacifico.

La fine della guerra fredda cambiò le carte in tavola. Washington e Manila trattarono nuovi accordi di alleanza strategica e le basi militari vennero smantellate e sostituite da una presenza più leggera, poi rafforzata solo due anni fa grazie a un accordo firmato da Obama con l’allora presidente Benigno Aquino. Un paio di settimane fa, però, Duterte ha chiarito che i corpi speciali americani di stanza nell’isola di Mindanao dov’è presente una forte insorgenza islamica, “se ne devono andare”. Forse i militari no, ma certo a scappare a gambe levate, al momento, sembrano soprattutto gli investimenti americani. L’andamento del mercato borsistico e della valuta locale, il peso filippino, è in caduta libera da tre settimane. L’agenzia di valutazione finanziaria Standard&Poor’s ha spiegato che, alla base di questo crollo, ci sono le incertezze politiche connesse alla guerra alla droga e, appunto, la politica estera imprevedibile. Ma Duterte, dal canto suo, ha già rivelato qual è la sua ricetta per affrontare questa crisi: “Non c’è nessun problema. Io lancerò delle alleanze commerciali con la Cina e la Russia. Gli altri investitori se ne vadano pure”. A Pechino, inoltre, si è rivolto oggi per chiedere una mano nella guerra alla droga. Duterte è andato in un laboratorio della droga a Luzon – secondo quanto racconta l’agenzia di stampa giapponese Kyodo – e ha parlato, rivolgendosi direttamente ai cinesi: “Vorremmo che controlliate la vostra gente e vi focalizziate sui propri criminali”. Non è chiaro quando sia accaduto, ma il leader filippino ha anche chiarito di aver avuto incontri segreti con il presidente cinese Xi Jinping e col primo ministro russo Dmitri Medvedev. E ha offerto la mano a Pechino sulla vicenda dei territori contesi nel Mar cinese meridionale, per risolvere la quale il suo predecessore aveva deciso un ricorso a un Tribunale arbitrale ottenendo una sentenza favorevole, che tuttavia la Cina ha dichiarato di non riconoscere. In questo senso potrebbe esserci una svolta con la visita che Duterte farà in Cina il prossimo mese. Inoltre, il capo di Stato ha detto che vorrebbe, entro il 2016, recarsi in Russia.

export-nave-cinaLa questione del Mar cinese meridionale non è secondaria per Washington. La Cina reclama la grandissima parte di quel mare attraverso il quale passa la metà del tonnellaggio mercantile mondiale. Come il Pacifico è stato considerato il “lago americano”, il rischio è che Pechino voglia trasformare quell’area nel “lago cinese”. Sarebbe un bello smacco per Obama, a fine mandato, visto che uno degli assi della sua azione è stata la politica estera incentrata sul cosiddetto “pivot asiatico”. Ma non sono solo gli americani a essere preoccupati per l’esuberanza di Duterte. Nelle Filippine molti sono convinti che stare con l’America e stare con Cina e Russia non siano precisamente la stessa cosa. “Prima di tutto, l’approccio del Paese dovrebbe essere quello di difendere i suoi interessi fondamentali, che includono la sicurezza e l’integrità territoriale, la ricchezza dell’economia e la protezione dei cittadini filippini all’estero. In secondo luogo, dovrebbe cercare di raggiungere questi obiettivi sposando i valori nazionali e universali, come l’impegno a rispettare e far rispettare la legge internazionale. Terzo, e fondamentale per un Paese meno sviluppato, deve far tutto questo nella maniera più efficiente e meno costosa”, ha detto Dindo Manhit, presidente dello Stratbase-ADR Istitute (ADRi) per gli studi strategici al Manila Times. “Gli Stati uniti – ha ricordato Manhit sono la più larga fonte d’investimento delle Filippine e il secondo mercato più importante per le esportazioni, dopo il Giappone”. Ma, purtroppo, “nal caso del presidente Duterte, la parola ‘indipendenza’ sembra voler dire cacciare gli Stati uniti e avvicinarsi alla Cina” e questo potrebbe “compromettere…la sicurezza economica complessiva delle Filippine”.

 

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