”Viviane” al cinema, la lunga marcia per la libertà

”Viviane” al cinema, la lunga marcia per la libertà
25 novembre 2014

E’ una lunga marcia che si svolge per anni dentro l’angusta aula di un tribunale rabbinico israeliano quella che intraprende la protagonista di “Viviane”: il film di Ronit e Shlomi Elkabetz candidato all’Oscar per Israele, nei cinema italiani dal 27 novembre, racconta l’estenuante lotta per il divorzio e per la libertà di una donna infelice ma tenace. La vicenda è ambientata ai giorni nostri e la donna non appartiene a nessuna particolare comunità religiosa, solo che in Israele, a tutt’oggi, non esiste il matrimonio civile, e la legge religiosa sancisce che solo il marito può concedere la separazione e solo un tribunale di rabbini può sancire il divorzio. E se da una parte l’obiettivo principale di quest autorità religiosa è di preservare la “shalom beit”, cioè la pace domestica e il nucleo familiare ebraico, dall’altra alla donna in attesa di divorzio è preclusa la possibilità di ricostruirsi una vita sentimentale ma anche ogni tipo di vita sociale.

Questi sono i presupposti da cui la regista, sceneggiatrice e interprete Ronit Elkabetz è partita per raccontare la storia di Viviane. Nel film la rigidità delle regole, ma anche l’ostinazione del marito a non voler concedere il divorzio, rendono la vicenda drammatica e farsesca al tempo stesso: la triangolazione di sguardi, di accuse, di cavillose congetture tra i coniugi, i loro avvocati e i rabbini, rende questo processo assurdo, anche se reale. I continui rinvii delle udienze, i tentativi di trasformare la donna in un imputata, in un’ingrata, in una squilibrata, il disprezzo anche per le testimoni donne, fanno continuamente aumentare la tensione e il pathos della vicenda, che la regista ha voluto raccontare per rappresentare tutte le donne, non solo israeliane, che si considerano imprigionate a vita dalla legge.

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