Il voto in Sicilia agita il Pd, quella specie di tregua esibita da Matteo Renzi lo scorso fine-settimana alla conferenza programmatica di Napoli potrebbe avere vita breve se il risultato nell’isola dovesse essere particolarmente negativo. Il segretario ne è consapevole, da mesi si parla del voto siciliano come della miccia che potrebbe far saltare definitivamente gli equilibri del Pd e non a caso diverse contromosse sono state già adottate, a cominciare dall’approvazione del Rosatellum e dalle aperture sul tema delle alleanze e persino sulla premiership. Il fatto è che, nonostante le recenti correzioni di rotta, sono ancora in tanti – dentro e fuori il partito – a pensare che non sia più Renzi la carta vincente da giocare. Andrea Orlando lo ha detto chiaramente: “Renzi a Portici ha detto che l’importante è che vada al governo il Pd, non che vada al governo lui. Dopo la Sicilia una discussione sul perimetro della coalizione va fatta.
E anche sul candidato premier, ci si mette intorno a un tavolo e si discute”. E’ questo il punto su cui i maggiorenti del partito si preparano a dare battaglia: Renzi guidi pure il Pd, ha vinto le primarie, ma per costruire la coalizione mostri generosità e accetti di fare un passo di lato, in modo da facilitare la ricostruzione di un campo di alleanze. Dalle parti di Renzi, appunto, le contromosse sono state già studiate. Da un lato, si proverà a fare il confronto con il risultato del Pd del 2012 in Sicilia – circa il 13% – sperando di poter reggere il confronto. Storicamente da quelle parti il Pd e il centrosinistra non hanno mai raccolto grandi risultati e in questo caso sarà anche facile dare la colpa a Mdp che si è smarcata dalla candidatura di Micari. “Bersani ed Errani, per andare dietro a D’Alema, si stanno assumendo la responsabilità di dividere il centrosinistra alle prossime elezioni”, dice il renziano Marcucci. La parola d’ordine è spostare l’attenzione sulle politiche. Il leader Pd ha accettato il confronto con Luigi Di Maio martedì prossimo, a poche ore dal voto siciliano, e ha ribadito per fine novembre l’appuntamento della Leopolda, la ormai storica kermesse renziana di Firenze pensata tutta intorno al leader.
Nota un deputato democratico della minoranza, “il fatto che Renzi abbia accettato subito il confronto tv con Di Maio la dice lunga sulla sua strategia: vuole archiviare rapidamente il voto siciliano e proiettare già il partito nella campagna per le politiche. Ed è significativo che abbia scelto proprio Di Maio, il candidato premier M5s…”. Ovvero, secondo questa interpretazione, un modo per ribadire che lui è il candidato a palazzo Chigi del Pd. Ma il rilancio preventivo di Orlando conferma che le cose potrebbero essere un po’ più complicate. E’ vero che a pochi mesi dalle elezioni e con una legge elettorale che dà molto potere al vertice del partito, non è semplice aprire un fronte con il segretario. E’ vero che in Sicilia è stato Mdp a rompere, ma questo non cambia di molto il giudizio di dirigenti come Orlando e Franceschini, anzi: dal loro punto di vista è la dimostrazione che non sarà possibile ricostruire un’alleanza di centrosinistra competitiva finché Renzi non accetterà di mettere a disposizione la leadership della coalizione. Anche perché, da fuori, c’è Giuliano Pisapia che spinge nella stessa direzione: Campo progressista sarà presente alle elezioni, ha annunciato, ma “questo non vuol dire che siamo disposti a fare ‘Biancaneve e i sette nani'”, dice uno degli uomini vicini all’ex sindaco di Milano. Tradotto, pronti ad un accordo anche col Pd, ma Renzi accetti di discutere la leadership della coalizione, magari anche accettando delle primarie. Qualcuno, come Pier Luigi Bersani, non crede che il voto siciliano possa cambiare granché all’interno del Pd. “Nemmeno la sconfitta in Sicilia – dice, dando per scontato il risultato – cambierà il Pd, Renzi tirerà dritto come sempre”. Ma, appunto, conteranno molto i risultati.