Il tentativo di esorcismo è già iniziato, da giorni a largo del Nazareno si sforzano di ripetere che il voto in Emilia non avrà ripercussioni nazionali, nè sul governo, nè sulla guida del Pd. Con il passo indietro di Luigi Di Maio dalla guida dei 5 stelle, il segretario Pd vede alla portata di mano l’obiettivo che si è prefisso dall’inizio del suo mandato, la neutralizzazione o perlomeno la normalizzazione del Movimento fondato da Beppe Grillo. Ma, nonostante i proclami, è chiaro a tutti che una sconfitta di Stefano Bonaccini sarebbe dura da assorbire, sia a livello di maggioranza di governo, sia nel partito. Zingaretti da tempo è convinto che lo schema tripolare – centrosinistra, centrodestra e M5s – sia ormai di fatto superato. Il segretario Pd ha sempre pensato che i 5 stelle non avrebbero retto alla prova del governo, perlomeno i 5 stelle nella versione che abbiamo conosciuto fin qui, e i fatti delle ultime settimane gli stanno dando ragione. L’idea di un’alleanza strategica con il Movimento, o con la parte più di sinistra del Movimento che di fatto avrebbe come punto di riferimento il premier Giuseppe Conte, diventa assai concreta dopo il passo indietro di Di Maio. Un nuovo “campo di alleanze”, come lo chiama Zingaretti, costruito intorno al Pd e aperto anche agli ex dem usciti ai tempi della segreteria Renzi, al movimento di Federico Pizzarotti e, appunto, all’ala “progressista” dei 5 stelle.
Una linea da sancire con un congresso, nelle intenzioni del segretario Pd. Delle assise centrate sul programma e non sulla scelta di un nuovo segretario, un appuntamento che dovrebbe sulla carta rafforzare la leadership di Zingaretti e sancire la ricomposizione del centrosinistra, togliendo di fatto spazio di manovra a Matteo Renzi e Carlo Calenda. Tutto, però, dipende da ciò che succederà domani in Emilia Romagna. Diversi parlamentari Pd, in via confidenziale, ammettono che le rassicurazioni delle ultime ore – “non succede niente, anche se si perde” – difficilmente reggerebbero alla prova dei fatti, in caso di sconfitta. “In primavera – viene fatto notare – si vota anche in Campania, nelle Marche, in Toscana, in Liguria… Non potremmo certo affrontare una campagna elettorale come se nulla fosse accaduto, se perdessimo l’Emilia”. Quel congresso ipotizzato proprio da Zingaretti, insomma, potrebbe diventare l’appuntamento dell’ennesima resa dei conti dentro a un Pd, a quel punto, in seria difficoltà. Anche perché i contraccolpi riguarderebbero pure il governo, sul quale Renzi è pronto a calare la sua opa ostile. Il ritorno al voto non è una soluzione per nessuno, con l’aria che tira, ma da mesi l’ex premier tiene una linea critica nei confronti di Conte.
“Renzi – continua il parlamentare Pd – punterebbe come minimo a ridisegnare profondamente gli equilibri della maggioranza, forse anche cambiando il presidente del Consiglio, se gli riesce”. E nel Pd nessuno vuole andare a votare. Anzi, l’ala più fortemente “di governo” è quella guidata da Dario Franceschini e dagli stessi ex renziani rimasti nel partito. “Tutti loro lavorerebbero per fare andare avanti comunque la legislatura, con questo governo o con un altro”. Zingaretti ha già provato a blindare in ogni caso la sua segreteria: “Il Pd era morto dopo le elezioni del 4 marzo 2018 – ha ricordato – adesso è al 20-22%, nonostante due scissioni. Tre, se consideriamo chi è uscito quando c’era ancora Renzi. Senza le scissioni il Pd sarebbe in grado di competere con la Lega per il ruolo di primo partito”. Ma difficilmente questi argomenti basteranno ad arginare l’onda di una sconfitta in Emilia. Il nuovo Pd di Zingaretti ha bisogno di una vittoria di Bonaccini per poter iniziare a prendere forma.